giovedì 21 gennaio 2010

Avatar

AVATAR – USA 2009, di James Cameron con Sam Worthington, Zoe Saldana, Laz Alonso, Sigourney Weaver, Giovanni Ribisi


Non prendo spesso la decisione di scrivere di un film. Un po’ perché sono terribilmente pigro, ma il motivo principale è che spesso non farei altro che aggiungere una goccia ad un mare di già detto, ed è per questo che ho evitato, per esempio, di parlare di La Croce dalle 7 pietre, rutilante capolavoro da una stellina di cui però è possibile trovare decine di articoli e recensioni in rete, alcuni anche di pregevole fattura.

Dunque, secondo questa logica, Avatar dovrebbe essere l’ultimo argomento che dovrei affrontare, dato che ovviamente ne stanno parlando tutti. Troppi direi, visto il vomitevole mix di incompetenza, snobismo e malafede che caratterizza come sempre i giornalisti nostrani, gente per cui il fatto che Baarìa non abbia vinto i Golden Globes e sia stato escluso dalla short list dei nominabili all’Oscar è una notizia quando sarebbe vero il contrario.

Ad ogni modo, in questo caso voglio dire la mia, perché ritengo che questo sia uno di quei film che segnano la storia, e dopotutto seguo con grande interesse il suo sviluppo da quando è entrato nel vivo della fase produttiva, cioè dal 2007 se non prima.

Credo che sia inutile sprecare troppo spazio per parlare della trama. C’è chi ha accostato Avatar ad altre pellicole come Balla coi Lupi, Pocahontas o L’ultimo Samurai – e non in senso positivo – e devo ammettere che sono paragoni calzanti: sicuramente l’originalità della sceneggiatura non è il punto forte del film, che in effetti è parecchio prevedibile sin dall’inizio. Se si tratta di una ben precisa scelta per attirare quanto più pubblico possibile, facendo addirittura andare al cinema gente che non ci va mai, un po’ come era successo con Titanic (cosa comprensibile e anche necessaria visti gli enormi investimenti in termini sia di tempo che di denaro), è una domanda di cui solo Cameron sa la risposta. La mia opinione è che l’intenzione del regista era quella di trasportare il pubblico in un mondo di sua creazione, ed essendo questo lo scopo, diventava necessario ricorrere ad una storia quanto mai archetipica, cosa questa che ha poi scatenato tutti i falliti del mondo del cinema che si sono affrettati a gridare al plagio. Certo, James Cameron ha copiato Delgo e Aida degli alberi, esattamente come Peter Jackson fece man bassa del capolavoro animato di Ralph Bakshi. Idiozie. Già che ho iniziato parlando degli aspetti negativi, proseguo con la colonna sonora: è orrenda, e James Horner un incapace che non fa altro che ripescare motivi dai suoi (pessimi) lavori precedenti, Danko compreso.

Ecco, i difetti di Avatar sono stati trattati adeguatamente. Quello che resta è sublime, è gioia per gli occhi, è l’essenza stessa di ciò che il cinema dovrebbe essere. Perché quel genio di James Cameron (che conferma in modo inequivocabile di essere il migliore, con buona pace di Spielberg, Lucas. Jackson e compagnia bella) riesce DAVVERO a trasportarci in un mondo fantastico, perché mi ha fatto assistere allo spettacolo di una sala cinematografica piena di giovani, adulti, vecchi e bambini, che si sorbivano un film di tre ore in perfetto silenzio, salvo esprimersi con un corale “ooooooh” nelle scene più belle, e concludere la visione con un applauso (e quando mai capita, in Italia?).

Personalmente non posso fare altro che compatire coloro che, facendo a gara a chi è più anticonformista, cercheranno di criticarlo perché non è Bergmann, magari dopo averlo visto in divx.

Questa volta, io mi uniformo alla massa. Il viaggio sul pianeta Pandora è stato bellissimo, e tornare in una realtà dove Sandro Bondi non solo esiste, ma scrive pure poesie, un po’ triste.

E’ evidente che Avatar sia un film che visto al di fuori di una sala cinematografica in 3D(possibilmente ben attrezzata) possa perdere molto del suo fascino, e che lo stesso si potrà dire quando – tra 2, 5, 10 anni – verrà superato da qualcos’altro. Però, in questo momento, qui e adesso, di capolavoro si tratta, senza dubbio.

IL GIUDIZIO DEL CRITICO *****

lunedì 18 gennaio 2010

Double bill! [REC] + QUARANTENA


[REC] – Spagna 2007, di Jaume Balagueró e Paco Plaza con Manuela Velasco, Vicente Gil, Ferrán Terraza, Jorge Yamam, Carlos Vicente, Pablo Rosso, David Vert, Jorge Serrano

QUARANTENAQuarantine – USA 2008, di John Erick Dowdle con Johnathon Schaef, Jennifer Carpenter, Columbus Short, Marin Hinkle, Joey King, Denis O'Hare, Rade Serbedzija

Una delle tante dimostrazioni dell’imbecillità degli americani sta nel fatto che ogni volta che vengono a conoscenza di un film straniero interessante, ne realizzano all’istante un remake casalingo che inevitabilmente risulta molto peggiore dell’originale, mancandone la freschezza e l’ispirazione. Se questa pratica può parzialmente trovare una giustificazione nel caso di pellicole orientali, considerate ostiche per il pubblico a causa di nomi e riferimenti culturali a noi estranei, (per non parlare degli attori, inespressivi e tragicamente tutti uguali tra loro ai nostri occhi) la cosa diventa incomprensibile in altri casi, come questo dello spagnolo [REC].

In effetti, a parte la scritta Bomberos sulle giacche dei vigili del fuoco, non c’è assolutamente nulla nel film iberico – che peraltro è girato completamente in interni – che tradisca la sua origine europea, ma tant’è: Quarantine è stato rapidamente realizzato e dato in pasto al pubblico,e, com’era lecito aspettarsi, non regge il confronto.

L’idea di base non è forse originalissima, ma è sempre efficace: lo spettatore assisterà alla vicenda di una troupe televisiva che, partita insieme ad un gruppo di pompieri per girare un servizio, si ritrova nel bel mezzo di un pericolosissimo e misterioso contagio: chiusi in un condominio dalle autorità, che bloccano tutte le uscite, i protagonisti se la dovranno vedere con gli inquilini ormai infetti, tramutati in una sorta di zombie parecchio irritabili…

La pellicola spagnola sfrutta abilmente il materiale di partenza, e riesce a colpire nel segno in più di un’occasione: lo scenografo ha fatto un lavoro egregio, e la fotografia in finta presa diretta fa il suo dovere. Già, perché tutta la storia viene ripresa dalla telecamera di uno dei personaggi, un po’ come accadeva in The Blair Witch Project per intenderci (anche se la paternità dell’idea è da ascriversi a Ruggero Deodato con il leggendario Cannibal Holocaust).

La prima delle note dolenti che riguardano il remake americano Quarantine è legata proprio a questo: le riprese sono troppo patinate per essere spacciate come autentiche, e gli stessi attori sono troppo belli e pulitini per risultare credibili nei loro ruoli: il tutto suona falso dalla prima all’ultima scena. Procedendo con la visione, l’inutilità di questo film si fa palese: in pratica l’originale viene rifatto parola per parola, inquadratura per inquadratura, ed esce dal confronto sconfitto su tutti i fronti. Ad aumentare la nostra perplessità nei confronti dell’operazione, c’è il fatto che gli autori statunitensi hanno lasciato i nomi spagnoli dei personaggi. A che pro?

Sia [REC] che Quarantine hanno ottenuto un discreto successo all’uscita nelle sale e probabilmente, visto da solo, il secondo non sarebbe neanche un horror disprezzabile. Ma, dato che si tratta in pratica dello stesso film, non vedo il motivo di perdere tempo con Quarantine visto che l’originale si conferma per l’ennesima volta migliore della copia.

IL GIUDIZIO DEL CRITICO

[REC] ****

QUARANTINE **